Ilaria Cardella
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Il nuraghe è ubicato su una collina di natura calcarea a 408 m.s.l.m. poco distante dall’abitato di Villanovaforru. Il nome significa “la porta verso il mare”, poichè essendo così in alto era ed è possibile vedere tutt’oggi l’orizzonte fondersi con il mare azzurro di Tharros verso ovest e con il mare di Cagliari verso sud. Il terreno apparteneva ad un proprietario di Villanovaforru, il sig. Francesco Mocci che lavorando la terra scorse i primi oggetti come monete, fusaiole, frammenti di ceramiche e i grossi massi nascosti dalla terra. Fu il giovane Giovanni Pusceddu negli anni 60’ ad accorgersi che vi erano punti in cui l’erba seccava ed ingialliva disegnando figure geometriche, indice che li sotto ci fosse qualcosa e persuase chi di dovere a procedere con delle indagini. Così nel 1969 furono destinate 800.000 lire ai primi saggi di scavo e nell’estate dello stesso anno l’archeologo Enrico Atzeni, dopo un lavoro di diserbo, iniziò gli scavi. Nel 1971 iniziano i lavori che portarono alla luce buona parte del complesso nuragico. Ubaldo Badas sostituì Atzeni dal luglio del 1972 al dicembre del 1979, assistito dal capo squadra Luigi Cilloco, come restauratore. Il nuraghe venne edificato con marna calcarea risalente al Miocene che ancora oggi evidenzia la presenza di fossili e sabbia, attestando la presenza del mare moltissimi anni orsono. L’ingresso si apre a sud e il complesso si espande su una superficie di mezzo ettaro, composto di una grande torre centrale risalente al 15° sec. a. C alta ben 10 mt con camera interna, racchiusa agli inizi del Bronzo recente (XIII sec. a.C.) da un bastione a tre torri unite da grandi mura che custodiscono un pozzo scavato in parte nella roccia con volta sovrapposta a filari. Nel 9° sec. a.C. il tutto fu circondato da una massiccia cinta muraria a sei torri angolari. Tra il bastione trilobato e l’antemurale si estende il villaggio sorto su un precedente insediamento del Bronzo medio utilizzando materiale proveniente dallo smantellamento di capanne più datate. Il luogo venne in seguito abbandonato e interessato da un incendio che ancora mostra le tracce su muri e suppellettili. Sul finire del 4° sec. a.C. il mastio e il cortile vennero destinati a scopo religioso. All’interno del cortile si compivano sacrifici cruenti dove vennero rinvenuti cumuli consistenti di resti animali bruciati e di carboni. Il pavimento della camera e del corridoio del mastio erano invece ricoperti di materiale votivo. Il culto proseguì sino al 6°-7° sec. d.C ma nei secoli avvenne un cambiamento nel rituale dove vennero abbandonate le lucerne e preferite sempre più le monete come offerta dominante nei confronti di una divinità legata all’ambito agrario. Le abitazioni del villaggio costruite in periodo successivo, presentano una struttura più complessa a pianta centrale, con vani ellittici, quadrangolari e rettangolari. La più grande, a corte centrale, ha un’ampiezza di 150 m², suddivisa in ambienti che convergono in un unico cortile e costruita in tecnica microlitica (con piccoli blocchi e lastrine di marna). Le dimore erano residenziali con scopo di riposo, preparazione e consumo di cibi, deposito di utensili e provviste, attività artigianali e scala domestica. La presenza di residui di cibo nella capanna 12 come grani di cereali, ghiande, leguminose e un frammento di pane carbonizzato, e il rinvenimento di macine, coppe di cottura, caldaie bacili, attestano la propensione agricola della comunità. Furono rinvenuti anche resti di prolago, cervo, cinghiale, ossa di bue, pecora, capra e maiale. I suppellettili rinvenuti sono esposti presso l'omonimo museo archeologico di Villanovaforru. , tra cui più di 600 esemplari di lucerne e 269 di monete, ceramica di uso comune, a vernice nera, vasi vitrei, unguentari, vasi in terra ancora sigillata, frammenti d’anfora, gioielli in lamina d’oro, spighe d’argento, frammenti di specchi d’argento e bronzo, spilloni bronzei, pugnale di ferro, oggetti in legno, sughero, bronzo, ferro. L'elevata preparazione delle guide valorizz